IL TERMINE BURN OUT, NELLA LETTERATURA SULLE PROFESSIONI SOCIALI, NASCE NEL 1974 PER OPERA DELLO PSICOTERAPEUTA STATUNITENSE FREUDENBERGER. IL TERMINE SIGNIFICA, LETTERALMENTE, “BRUCIATO” NEL SENSO D’ESTINTO, ESAURITO E SEGNALA EFFICACEMENTE UNA SINDROME DA DEMOTIVAZIONE NEL PROPRIO LAVORO, TIPICA DI CHI SI OCCUPA DELLE RELAZIONI D’AIUTO (SIA CON UN RUOLO PROFESSIONALE, SIA COME VOLONTARIO).

di Paolo Chiappero*

Alcuni tratti caratteristici della “sindrome di burn out” sono: l’insoddisfazione relativamente al proprio ruolo professionale e/o sociale, una diminuita efficacia nel proprio operato, l’incapacità di intravedere soluzioni o semplicemente possibilità di cambiamento, sensazioni di spersonalizzazione (nel senso di un evidente ed eccessivo distacco tra sé ed il proprio lavoro).

Accanto a questi sintomi di tipo psicologico ed emotivo insorgono in genere disturbi fisici, i più frequenti dei quali sono: insonnia, emicranie, stanchezza fisica, fenomeni allergici, disturbi funzionali di varia natura ed entità soprattutto a carico del tratto gastro-intestinale.

I sintomi, sia psichici sia fisici, non si escludono a vicenda anzi, spesso sono contemporaneamente presenti. I primi, in particolare, tendono a rinforzarsi vicendevolmente.

Le cause di tutto ciò vanno ricercate in aspetti soggettivi (soprattutto nel sistema motivazionale del singolo) ed oggettivi (le condizioni reali in cui il soggetto opera e svolge la sua attività di “aiuto”).

Per rendere maggiormente l’idea del collegamento esistente tra burn out e motivazione nelle professioni d’aiuto (operatori sociali, educatori, psicoterapeuti, volontari che operano nel sociale, membri di gruppi di auto-aiuto, ecc…) vorrei prendere a prestito una frase che credo sintetizzi efficacemente alcune delle possibili cause: “You have to been in fire in order to burn out” (Bramhall ed Etell, 1981). Ovverosia: per giungere alla condizione cosiddetta di burn out devi esserti “acceso” idealmente ed emotivamente; infatti, è proprio tra gli operatori che condividevano il maggior entusiasmo iniziale che spesso riscontriamo questa sindrome. Naturalmente con questo non si vuole affermare che sia sempre vero anche il contrario, cioè che tutti coloro che vivono una forte spinta motivazionale iniziale debbano per forza scoprirsi “scoppiati” da lì a poco tempo!  

Tenendo come riferimento gli aspetti generali appena sottolineati, è opportuno fare un passo indietro e soffermarci brevemente sui cosiddetti “ruoli d’aiuto”. Con questa definizione ci riferiamo a quelle professioni ed incarichi non professionali in cui, la funzione di aiuto all’altro, occupa una posizione nevralgica all’interno delle proprie competenze. A sua volta, con “aiuto”, ci si riferisce genericamente ad una risposta ai bisogni psichici e/o fisici dell’altra persona (indipendentemente cioè dalle metodologie usate, dal contesto in cui si opera e dal tipo di bisogni che si prendono in considerazione).

Definito il campo di indagine sarà il caso di specificare meglio le condizioni soggettive ed oggettive, che possono essere responsabili della sindrome di burn out.

Un fattore predisponente, già anticipato, è legato alle aspettative con cui ci si avvicina al lavoro sociale. I soggetti maggiormente a rischio sono spesso coloro che erano detentori di una forte carica ideale, ed un significativo impegno sociale. Perché questo? “La delusione è figlia dell’idealizzazione” si dice. In altre parole: quanto più sono smisurate le attese positive relativamente ai “risultati” che pensiamo di raggiungere, tanto più possiamo esserne delusi e deprimerci, giacché la realtà non corrisponde ad esse. Questo rapporto tra intenzioni e risultati è ovviamente generico, ma c’è qualcosa di più specifico che concerne proprio la tipologia delle nostre aspettative: fare qualcosa per gli altri.

Si tratta di una funzione importante per la sopravvivenza stessa della nostra specie (e che fa definire l’essere umano come “animale sociale”). Le difficoltà nello svolgere questa funzione, sconfinanti nel burn out vero e proprio, vanno posti lungo un continuum. Ad un estremo di esso abbiamo il caso di un’errata valutazione della realtà (“non è un compito difficile!”) o una sopravvalutazione delle nostre capacità (“sono certo che ci riuscirò”). Quante volte possiamo fare valutazioni sbagliate! L’operatore o il volontario possono ritrovarsi di fronte ad ostacoli non preventivati, o di portata maggiore del previsto. Starà alla nostra capacità di analisi, alla consapevolezza del problema e al grado realistico di autostima, quanto riusciremo (o non riusciremo) a “cavarci fuori” da una situazione frustrante. Ma all’estremo opposto, di quest’ipotetico elenco di cause soggettive, possiamo avere vere e proprie patologie. Per alcuni soggetti aiutare l’altro può essere connesso a desideri riparativi verso persone del proprio presente o passato verso le quali non si è potuto, o voluto, fornire l’aiuto emotivo necessario. Il senso di colpa legato a queste situazioni può essere “spostato” sugli utenti, pazienti, compagni di gruppo, ecc.. Oppure la “vocazione all’aiuto” può correlarsi al far esperire agli altri ciò che noi avremmo voluto avvenisse nei nostri confronti: è l’aiuto che tanto avremmo voluto e non c’è stato dato. In altri casi ancora si tratta di proiettare sull’altro i nostri limiti, bisogni, carenze. L’altro diventa, inconsciamente, una parte di noi, quella maggiormente sofferente e bisognosa. Di fronte a quest’ultima possibilità si parla di “aiuto come difesa” (Schimdbauer, 1981).

Come è facile immaginare la discriminante tra legittime motivazioni inconsce e cause patologiche sta in fattori quantitativi e qualitativi. Quanto più una persona non “aiuta” solo sulla base dei propri conflitti e carenze legate alla propria vita personale, o quanto più è consapevole di tutto ciò, abbiamo condizioni motivazionali in cui l’intreccio tra problematiche personali e reale interesse all’altro, è più equilibrato. D’altro canto è noto, e perfettamente “normale”, che una parte delle nostre motivazioni a fornire un soddisfacimento ai bisogni emotivi dell’altro nasce inevitabilmente all’interno della nostra biografia personale. A questo proposito esiste anche una spinta, biologicamente determinata, al prendersi cura dei nostri simili (come è stato ben descritto, ad esempio, da molti teorici della teoria dell’attaccamento).

Ma dipende tutto da noi? Ovviamente no! Tutto quanto è stato appena messo in risalto è soggetto a “delusioni”, frustrazioni o a veri e propri scompensi psichici (nella misura in cui si mettono in discussione dei nostri meccanismi difensivi) anche sulla base del contesto in cui operiamo.

Elencherò alcuni fattori maggiormente responsabili della sindrome di burn out (farò in seguito una distinzione che riguarda la specifica posizione del “volontario”): a) la quantità in termini di tempo della nostra “esposizione” al contatto con la sofferenza psichica e/o fisica; b) il sovraccarico derivante dalle funzioni che ci vengono assegnate (da un ente, datore di lavoro, altri volontari o dal gruppo stesso quando l’ambito è quello gruppale) rispetto alle nostre reali possibilità ed energie psicofisiche; c) l’assenza, o insufficienza, di momenti di confronto significativo con i colleghi o con figure professionali che svolgono un ruolo di guida e supervisione; d) l’indeterminatezza del proprio ruolo (ad es. “cosa è un helper?” nel caso dei gruppi d’auto aiuto, oppure “cosa deve fare un educatore?” in un ambito lavorativo); e) l’ambiguità connessa al proprio ruolo, nella pratica quotidiana, dovuta a richieste diverse e contrastanti che riceviamo (restando al caso del gruppo d’auto aiuto un esempio potrebbe essere: “per la LIDAP dovrei fare questo, ma il mio gruppo mi chiede altro…” e magari il Supervisore ha un’opinione ancora diversa! f) una formazione, intesa in senso pragmatico e non necessariamente accademico, insufficiente (“non sapevo nulla del gruppo ed ora mi ritrovo qui e non ci capisco niente!” o ancora “sono in gruppo da poco tempo e vogliono che faccio l’helper”) e) carenze più generiche nell’organizzazione in cui si opera (assenza di regole chiare, eccessivo turn over delle persone, contesti di permanente conflittualità interpersonale, ecc…).

Spero, nell’esiguità dello spazio a disposizione, di essere riuscito a fornire alcune informazioni generali su questo fenomeno così emergente nel “sociale”. Ma prima di terminare vorrei soffermarmi su alcune specificità del ruolo del volontario.

Mi sono convinto, col tempo, che ci siano delle tipicità nel burn out di una persona che svolge alcune funzioni su base volontaristica. Anche in questo caso, se paragonato al lavoratore, dobbiamo distinguere tra dati soggettivi e no. Un fattore soggettivo è, ancora una volta, l’aspetto motivazionale. Come non pensare ad un interesse maggiore, in chi decide “volontariamente” di svolgere un ruolo di aiuto, rispetto a chi ha anche (e a volte quasi eclusivamente purtroppo…) legittimi interessi occupazionali e di reddito? Molto semplicisticamente, ma realisticamente, dobbiamo pensare che in un volontario i fattori causali soggettivi citati in precedenza possono essere più presenti. Inoltre il volontario, se da un lato può avvalersi di un contesto che lo “comprende” maggiormente (quando opera tra pari, cioè in un’organizzazione di volontariato) dall’altro è “senza rete”, nel senso che non può avvalersi di tutte quelle caratteristiche di un ruolo lavorativo che, nella loro formalizzazione e prevedibilità, forniscono una più chiara delimitazione delle proprie funzioni ed obiettivi. In altre parole il volontario rischia in misura maggiore di trovarsi solo a fare i conti con la propria motivazione, così come con il proprio burn out. Per fare un esempio: per un lavoratore una pausa lavorativa può corrispondere alle proprie ferie cioè ad un proprio diritto, qualcosa di “normale”, mentre per un volontario prendersi una pausa, in un momento “critico”, è qualcosa che va maggiormente motivato, innanzi tutto con se stessi. Ma questo comporta un’ammissione di difficoltà, un rapporto con se stessi più sincero, senza la possibilità di “razionalizzare” di un lavoratore che, per rimanere all’esempio delle ferie, può dirsi “prenderò un po’ di ferie perché ne ho accumulate tante”, oppure “non mi fermo dal lavoro per stanchezza, ma perché ho giusto alcune cose da fare… e ho delle ferie che vengono a proposito”, ecc…, ecc… Il volontario rischia di avere a che fare solo con la propria coscienza, con i propri valori. Anche per questi motivi credo che chi opera nel volontariato non debba essere lasciato solo: con i suoi legittimi dubbi, con le sue umane difficoltà, con il suo diritto ad essere aiutato.

*Psicologo, psicoterapeuta, consulente Lidap – Genova

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